Mimmo Saponaro: «A Veglie una crisi amministrativa già vista in passato»

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Lettera di Mimmo Saponaro

La storia si ripete! Il Consiglio Comunale di Veglie torna ad essere commissariato a seguito delle dimissioni congiunte di 9 consiglieri comunali, 4 provenienti dalla maggioranza dell’oramai ex-sindaco Paladini e 5 rappresentanti l’opposizione.

E si ripete con dinamiche già viste in passato ovvero la necessità paventata da uno sparuto gruppo, (sorto a seguito dell’aggregazione post-elettorale) di consiglieri “senza portafoglio” che, chiedendo visibilità (alias posto in giunta), mettono in crisi un sistema democratico che aveva dato al paese una amministrazione.

Quali siano le cause è presto detto in due semplici concetti: uno, menzionato dal segretario del Partito Democratico (una forma di vita partitica presente ancora nel paese) e consigliere dimissionario Cipolla, rappresentato dal solito “schema della costruzione del consenso basato sui numeri” e cioè la costruzione machiavellica di una lista creata per “vincere” numeri alla mano, tralasciando provenienze politiche, visioni del paese e programmazione amministrativa; l’altro, lo aggiungo io, da forme di leaderismo imperante che creano, sulla base del consenso mediato, i famosi “mostri della politica” eredità di passate esperienze, che fondano le basi del loro seguito non più sulle aggregazioni sociali che la Costituzione Italiana pone come base dell’esercizio democratico.

L’art. 49 della Costituzione recita “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale“; lo schema richiamato nel presente articolo, che dovremmo cominciare ad imparare a memoria come lo si fa per il padre nostro per i cattolici, è immaginato per la “politica nazionale” ma, ovviamente, la si deve calare in ogni livello politico-amministrativo, tra i quali il comune.

I partiti oggi, inesistenti nelle loro forme classiche immaginate dai padri costituenti non esistono più; tranne che per sparute situazioni locali e per le esigenze rappresentative nazionali compaiono e scompaiono, si compongono e si dissolvono come se l’”appartenenza” ora fosse solo un problema di “posizionamento” temporaneo.

Io che sono cresciuto nei partiti, ne ho vissuto tutte le fasi, dalle giovanili dove ci si riuniva per “giocare” a fare i grandi sino alla partecipazione diretta ed al concorso ad amministrare un paese, dall’attaccare manifesti e pulire sezioni, al comporre liste e programmi, lo schema odierno che provoca poi le crisi di rappresentanza mi sta stretto. Il partito non era una struttura in cui, come molti pensano, venivano “indottrinati” i ragazzi sino a plasmarli…. il partito era e dovrebbe ancora essere un luogo di condivisione di scelte, amalgama di donne e uomini che hanno la stessa visione del paese e delle prospettive che si vogliono a questo offrire, un luogo dove la mediazione era sovrana, mai (o quasi mai) lo scontro.

La crisi dei partiti ha generato fenomeni come Berlusconi, Di Pietro e, localmente Emiliano. Soggetti che hanno reso la persona al centro del loro agire politico, l’immagine al centro delle scelte, i leader quali selezionatori della classe politica.

In tutto questo un sistema elettorale creato ad arte per sostenere questo schema e “demolire” i fragili centri di aggregazione politica.

Probabilmente anche in presenza dei partiti classici l’amministrazione Paladini sarebbe stata sfiduciata, ma un sistema di uomini singoli, di “yes-man” regge meno perché sempre sotto ricatto. Un ricatto che, se non scongiurato a monte, avrà vita lunga e presenza costante nella vita politica.

Tornare semplice elettore diventa come essere destinatario incolpevole di quelle che sono dinamiche personali e non politiche, soggetto passivo dei risultati che un assenza di indirizzo politico riversa sul tessuto sociale di un paese.

Che fare?

La domanda potrebbe portare ad una risposta piuttosto semplice.

Il suggerimento che mi sento di poter fornire ai prossimi “competitor” è quello di riappropriarsi degli spazi di condivisione sociale, di riaprire i luoghi di discussione pubblica e politica, di aiutare i giovani nella formazione e nello studio per “creare” classe politica e dirigente consapevole e preparata.

Rischiare anche di perdere le competizioni elettorali ma con la schiena dritta, sapendo di aver proposto agli elettori una squadra coesa fatta di idee e non di numeri.

Proporre un’idea di paese e una strada da percorrere, provando ad essere impopolari su alcune scelte e popolari nell’essere ricordati come amministratori che hanno lasciato un segno.

Bisogna osare, abbattendo i due mali che attanagliano il nostro paese: i “nomi blasonati” e soprattutto l’invidia.

Essere amministratore deve significare essere dedito ad una missione, non fregiarsi di una fascia o di un titolo attribuito per uno specifico scopo e trasformato in una medaglia da osannare.

Mimmo Saponaro

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